GIANNI DE TORA |
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1975 ''Napoli Situazione 75''- Convento di S.Vito, Marigliano (NA) 12 ottobre 2 novembre |
REDAZIONALE FIRMATO ''VICE'' SUL QUOTIDIANO ''L'UNITA'' DEL NOVEMBRE 1975 |
Rassegna d'arte a Marigliano Con l'organizzazione di Crispolti, G. Pedicini, Bifulco e De Simone, il Multiplo di Marigliano ha allestito una interessante mostra di artisti campani nel convento di S. Vito. Il fine che gli organizzatori perseguono è quello del decentramento nel territorio extra-urbano delle istituzioni culturali operanti all'interno degli spazi cittadini. Il significato di tale decentramento è da ricercarsi nel tentativo di ribaltamento dei rapporti esistenti tra città e campagna: non un'inversione di ruoli, ma il confronto fra differenti criteri di valutazione fra vecchi e nuovi modelli culturali. Il territorio contadino, così lungamente trascurato dagli apparati che gestiscono la cultura, si rivela, vi- ceversa, fervido, aperto e ricco di un suo patrimonio di tradizioni popolari, di una sua cultura, cioè, che può agire autonomamente se guidato e orientato in opposizione all'industria dell'informazione. Non si tratta qui come sottolinea Crispolti, di stabilire un rapporto ''colonialistico verso sudditi emarginati da ogni possibilità di partecipazione creativa'', ma di sollecitare le masse contadine e studentesche a un aperto dialogo con gli operatori culturali e alla decifrazione dei segni che la civiltà industriale propone. Non solo. Con questa mostra, che nel contesto generale acquista valore didattico, esplicativo, e che segna solo un momento nell'attività del gruppo operativo di Mariglia- no, si vuole soprattutto la verifica delle forze creative nel territorio campano: una analisi che gli organizzatori, con molta competenza e rigore hanno saputo condurre confrontando le ricerche de- gli artisti sul piano delle tematiche e degli orientamenti. Per ragioni di spazio è impossibile fare qui un esame dettagliato di ogni singola opera, e d'altra parte, le presenze individuali, anche se rilevanti sul piano artistico esorbiterebbero dallo spirito della manifestazione che è tutta improntata sulla coralità. Ci limiteremo a segnalare solo i nomi degli espositori, che con opere nuove o già stanche hanno preso parte alla rassegna. Essi sono: Avella, Autori, Balatresi, Barisani, Bifulco, Borrelli, Bugli, Cafiero, Capasso, Coppola, Corrado, Dalisi, D'Amore, D'Antonio, Davide, De Bernardo, Del Donno, Del Vecchio, De Falco, Desiato, De Siena, De Simone, De Tora, Di Fiore, Di Ruggiero, Emblema, Esposito, Ferrò, Grasso, Gruppo Continuum, Gruppo Humour Power, Gruppo di Marigliano, Jandolo, Lista, Longo, Longobardo, Marano, Metto, Napolitano, Nobile, Oste, Paciulla, Paladino, Panaro, Pappa, Pedicini, Persico, Petti, Pirozzi, Pisani, Prop Art, Quarta, Rescigno, Rezzuti, Clara Rezzuti, Riccini, Risi, Romualdi, Salvatore L. Scolavino, Q. Scolavino, Servino, Siano, Simonetti, Squillante, Sparaco, Spinella, Starita, Tatafiore, Vecchio, Venditti, Vitagliano, Vivo, Zullo. La mostra rimarrà aperta fino al 2 novembre prossimo. |
TESTO DI ENRICO CRISPOLTI SUL CATALOGO DELLA MOSTRA |
Che cos'è l'incontro di Marigliano? Esattamente una verifica; una verifica di attività creativa in corso nell'area campana. Non è una rassegna intesa a sottolineare dislivelli, a indicare possibili discriminazioni. Al contrario è una rassegna in certo modo paritetica, dove tutti sono riportati al termine «lavoro in atto», del quale appunto si suggerisce la verifica e la presa di coscienza. Quindi non mira tanto appunto ad esaltare e isolare individualità, quanto a presentare un quadro collettivo di ricerca entro un'area culturale identificata. Evidentemente nell'intenzione di individuare una sorta di specifico caratterizzante tale quadro collettivo di ricerca, pur nelle numerose posizioni diverse che lo costituiscono e anzi l'arricchiscono: insomma un possibile coefficiente di risposta, specifica e originale, dall' area napoletana, dall'area campana. Non si tratta di istigare un discorso di alternativa provinciale, magari strapaesena; piuttosto di avvertire ancora una volta come una presa di coscienza (e una sollecitazione d'autocoscienza operativa) d'una data area culturale di ricerca non possa avvenire se non nel riconoscimento appunto di un minimo almeno di suo specifico. Non credo nell'astratta dimensione internazionale. Esiste piuttosto un dialogo intessuto in un linguaggio superprovinciale come supernazionale, se non vogliamo appunto dichiararlo "sic et simpliciter" internazionale, ma articolato nel segno dello specifico culturale di ciascun diverso interlocutore: il che appunto non impedisce il dialogo, anzi lo invera e lo rende utile di fronte ad una sorta di storicità di localizzazione specifica. Un artista d'aspirazione « internazionale » che non riuscisse a stabilire anzitutto un dialogo profondo con il proprio territorio culturale originario è votato inevitabilmente al fallimento, all'inutilità. Non lo si afferma in nome di nostalgie di "strapaese ", ma di modelli come Pollock, o Fontana, o Burri, o Baj, o Paolini, tanto per buttar lì subito qualche esempio non sospettabile. Dunque, come primo atto di presa di coscienza della propria condizione operativa, il riconoscimento di un possibile denominatore specifico. Non è del resto se non il chiarimento stesso di una volontà di permanere e di resistere in quelle condizioni. L'interrogativo su una possibile capacità di risposta napoletana, campana, quale area di ricerca (di ricerche, beninteso) sufficientemente caratterizzata e specifica è dunque il primo che una rassegna come questa intende porsi ed affrontare. E poi la funzione di contare chi di una tale risposta partecipa, chi la promuove, chi ne è protagonista o meno, pur nell'intenzione qui di un discorso che, per essere appunto « conta» preliminare, vuole porsi non tanto quale sollecitazione di scelte, quanto come coscienza d'una coralità. Perché occorre anche che di quest'area di ricerca si contribuisca a costituire un tessuto effettivo di relazioni al di là delle singole e personali capacità di resistenza. Solo così non soltanto si sopravviverà ( il che poi è ancora troppo poco), ma si potrà tentare una articolata presenza culturale, una prospettiva di lavoro autenticamente fondato e utile alla domanda sociale: beninteso ad una domanda sociale specifica, disperata e fervidissima a un tempo come è quella dell'area napoletana e campana. Il compito culturale, di democrativo civile servizio, e non di avventurismo carrieristico personale, che l'operatore culturale deve assumersi a contatto con un'area culturale diversa – come a me accade, romano – da quella propria originaria (ma poi rispetto a questa stessa in fondo il discorso sostanzialmente non cambia), è appunto quello di disporsi a un ruolo di sollecitazione ad un'autocoscienza operativa dell'area culturale entro la quale egli si trova ad operare.Sollecitazione significa dialogo autentico, provocazione e stabilizzazione del dialogo, in vista di un trasferimento finale di ruoli fra sollecitatore e sollecitati, che diverrano perciò autonomi completamente, se la loro capacità di autonomia partecipativa sollecitata infine sarà compiutamente raggiunta. Significa, dunque, esattamente il contrario di operazioni, inevitabilmente del tutto unilaterali, di colonizzazione culturale. Troppo spesso le possibilità di un'autentica risposta napoletana e campana sono state frustrate da un'errata impostazione di politica culturale: errata in buona fede, perché modellata su vecchi schemi paternalistici e centralistici; o volutamente deviante giacché di fatto condotta a difesa di privilegi di cultura elittaria, il cui potere poteva imporsi soltanto proprio attraverso il rapporto colonialistico verso "sudditi" culturali, la cui emarginazione da ogni possibilità di paritetica partecipazione creativa 'borbonicamente'' non doveva se non essere protratta all'infinito. Il trapianto culturale può avere senso sociale e proficuità creativa soltanto se avviene innestandosi su un tessuto già capace di una sua risposta, e sufficientemente autonoma e originale, Altrimenti resta operazione appunto colonialistica, terroristica, infine culturalmente inutile. Non si tratta di voler negare aprioristicamente l'utilità di operazioni unilaterali d'informazione culturale; non si tratta cioè di affermare l'inutilità dell'informazione culturale aggiornata e d'avanguardia, che ovviamente occorre nei termini più vasti. Ma è indispensabile rendersi conto che tali operazioni risultano infine inutili perché improduttive (e infine reazionarie, lasciando le cose come stanno, dopo un dispendio di energie economiche pubbliche non indifferente: molti esempi degli ultimi anni nell'area napoletana potrebbero essere addotti), proprio giacché presumono di potersi attestare prescindendo dalla sollecitazione e dal dialogo con una risposta locale: insomma dal riconoscimento e dal rispetto di questa. Mentre un corretto e produttivo processo di azione culturale oggi non può porsi se non in termini inversi: recuperando cioè il momento imprescindibile dell'informazione (e la più ampia, aggiornata e vitale possibile), al di dentro, anziché appunto a prescindere dalla capacità di risposta locale, insomma entro un'autentica possibilità di partecipazione e autonoma rielaborazione. Soltanto in questa misura si opera in termini di corretta politica culturale sociale. Ma quante volte e dove si è finora cercato di operare in questi termini nell'area napoletana e campana o nell'intero Mezzogiorno? Sollecitazione, animazione, informazione sono momenti imprescindibili, che si inverano soltanto nel dialogo concreto. Ma per stabilirlo occorre superare la vecchia presunzione classista di una cultura unilaterale: cioè la cultura sarebbe mero trasferimento di valori da una classe egemone che tradizionalmente ne possiede l'elaborazione, da una parte, a una classe operaia e a un proletariato ignari e da istruire e catechizzare, dall'altra; se volete fra un operatore culturale, che della "cultura" possiede tutti i valori e le possibilità, e un fruitore, che di tale informazione culturale quanto della possibilità stessa di autonoma rielaborazione è invece digiuno. Il gioco sarebbe quello di asservire tale fruitore al consenso all'attività dell'operatore: a ripeterne infine la lezione, unilateralmente. Mentre la corretta realtà della prospettiva di rapporti che oggi si pone in una consapevolezza di impegno politico democratico è nel riconoscimento anzitutto di una condizione virtualmente paritetica fra operatore e fruitore: la cultura dell'uno non è se non appunto una virtualità di rapporto e di operatività che acquista senso e valore soltanto ove si stabilisca un dialogo con la creatività di risposta del fruitore, tutt'altro che ignaro e digiuno, tutt'altro che infecondo, ma in possesso invece di una realtà culturale corrispondente alla sua specifica condizione socio logica e antropologica. Allora il rapporto non avverrà piu in termini di imposizione, più o meno terroristica, di "oggetti" (di oggetti estetici, quali prodotti unilaterali), ma in termini di dialogo, di partecipazione ove lo scambio è realmente bilaterale, il dare e avere è continuo, l'arricchimento creativo e operativo reciproco. Si apre dunque una prospettiva di lavoro e di collegamento culturale chiaramente democratici e non elittari. Una prospettiva ricca e molteplice, nella quale risultano privilegiati come campi di operatività immediata, ma maggiormente impegnativa e di fatto impegnata, i territori geografici e sociali più prossimi: dico il territorio sociale al quale si ha occasione di appartenere, e nel quale anzitutto è importante operare. Qualche indicazione di lavoro, per quanto ne so, e per quanto mi riguarda può essere finora data nell'attività in questi anni del gruppo di Marigliano, che ha curato l'organizzazione di questa rassegna, in quella molteplice e aperta e metodologicamente nuova della Casa del Popolo di Ponticelli, o nell'attività del nuovo gruppo di Salerno. Per quanto mi riguarda, in questa rassegna, rinnovo in termini attuali il mio impegno di partecipazione all'attività creativa dell'area napoletana, corrispondendo, in quella nuovissima e proficua prospettiva, a un interesse di apertura direi "a sud di Roma" manifestato in un discorso che ho avuto occasione di avviare poco più di quindici anni fa; e lo rinnovo in certo modo anche quale provvisorio bilancio di una maggiore costanza di frequentazione, e quindi anche estensione di rapporti, attraverso il ruolo di insegnamento a Salerno. Ma il lavoro che oggi si presenta da affrontare e svolgere, va affrontato e condotto collettivamente: non solo nel tentativo di contribuire alla costituzione di quel tessuto di cui dicevo all'inizio, ma anche perché la misura dell'impegno attuale di lavoro non può che essere in certo modo collettivo, al di là del singolo, del suo circolo, dei suoi personalismi: collettivo in quanto realmente sociale. La "conta" che questa rassegna di Marigliano intende promuovere, proprio quale operazione preliminare in tale direzione di lavoro, è poi anche intesa a verificare chi sia veramente, concretamente, democraticamente, disposto ad affrontare quel lavoro, che è oggi il nostro solo possibile ruolo di non ignari operatori culturali democratici. Un lavoro inteso a sollecitare, a promuovere in fondo appunto una adeguata risposta culturale napoletana, campana, anzitutto, per l'area specifica del nostro impegno, ma che potrà diventare più estesamente anche una risposta "meridionale", giacché il dialogo potrà muovere proprio verso e in tutto il sud della nostra penisola, magari proprio suggerendo quale possibile parametro orientativo le esperienze che nell'area napoletana attualmente si vanno compiendo. Il sud, diceva Boccioni in un suo manifesto ai pittori meridionali del 1916, oggi ancora per molti aspetti attuale, il sud dunque è a livello esistenziale un'immensa miniera di creatività. Ed è proprio su tale creatività riscattata e culturalmente riconosciuta per originale che la risposta della quale parlo si potrà compiutamente realizzare (e di fatto già negli episodi di questi nostri anni si è realizzata e si sta realizzando). Una risposta forse più democratica, forse meno fideisticamente tecnologica, se non atecnologica, più "povera" forse (con il primario riscatto, fra l'altro, delle tecniche povere): più "povera", ma non perciò meno autenticamente umana ed esistenzialmente radicata, anzi, proprio perché legata ad una realtà indubbiamente più "povera", in tale sua sconfinata ricchezza di virtualità creative (ove gioca anche una forte presenza ancestrale), di fronte alla tecnologia "ricca" e consumistica. |
il manifesto |
TESTO DI GERARDO PEDICINI SUL CATALOGO DELLA MOSTRA |
Ambientare a Marigliano una « rassegna» di un certo spessore con un' articolazione d'interventi / azioni, varia nelle proposizioni e nella direzione, ha signiticato confrontarsi con molteplici problemi, da quelli organizzativi a quelli economici, sostenere diffidenze e crisi di fiducia. Il superamento di tali difficoltà, senza rilevanti sostegni economici, è un punto fermo e la riuscita della manifestazione, sotto il profilo della partecipazione, può giustificare anche qualche assenza, non certo voluta da noi. Chi finora si è situato a distanza, dovrà ricredersi. Chi ancora considera le fasce territoriali intermedie come terreno di risulta, atto solo a veicolare un mercato di ritorno, dovrà meditare e fondare una sua giustificata presenza nel tessuto socio-culturale della regione. Perché è fin troppo evidente, oggi, l'importanza che esse hanno assunto sia a livello di indagine che come serbatoio di conoscenze. Considerate come un luogo staccato dalla produzione intellettuale, esse erano state e si erano estraneate dal processo addizionale generale e, per non smarrirsi, avevano finito per rinchiudersi nella propria identità arroccandosi nel proprio patrimonio culturale, ricco di valori e di riti esistenziali. La scoperta di tali insorgenti presenze ha determinato un'esplosione di ricerche e condizioni nuove di ambientamento, ha posto nuove possibilità di aggregazioni e ha svelato una complessa sedimentazione di credenze e valori popolari. «Uscire dalla città» può significare la valorizzazione, non in termini di mercato, di queste valenze. Propone soluzioni suscettibili di sbocchi col moltiplicare incidenze operative, facendo crescere una fase di « transizione» verso un modo di far cultura disalienato e liberato. Non si tratta più quindi di decretare un'immagine remissiva della cultura, né chiudersi nelle proprie debolezze per una aspirazione tacita al perbenismo ma imporre una propria egemonia, un proprio impiego politico-culturale. Ciò non solo è possibile ma si rende sempre più necessario, in quanto è l'unica via per uscire da una crisi di funzione e da una crisi di scopi, le cui radici affondano negli attuali livelli della lotta di classe. « Uscire dalla città» allora può significare anche « uscire dallo specifico». I complessi problemi, che vivono in questa formulazione, non possono essere sciolti se non in una trazione di lavoro nel sociale. Ciò giustifica l'attività di gruppi operativi che, in questi anni, si sono attestati su posizioni di ricerca. Ciò significa accorciare le distanze stabilite dalla divisione del lavoro. Ciò può far ribaltare il rapporto esistente tra città e campagna, e l'integrazione tra i due termini porterebbe inevitabilmente momenti altamente contestativi al ruolo, al modo e ai mezzi in cui si sono stabiliti finora parametri e valori culturali. Questo è il senso del lavoro del « Gruppo Marigliano ». Il loro spazio è un'officina aperta, in cui l'interazione/integrazione tra i modelli della comunicazione è già pratica vivente con il corpo sociale. E' uno spazio di ricerca complessiva, sentita e gestita come momento d'informazione/ animazione che, come spessore di intervento, certo ha i suoi limiti ma anche l'efficienza di porre con chiarezza l'esigenza di scelte categoriche. Né diverso è il ruolo del «Centro-arte incontri» a Nola. A mio parere, quindi, le minimals strutture, i gruppi folk e di teatro, come il Teatro di Marigliano, il gruppo de La Zabatta etc., che si sono andati autonomamente formando nel territorio, rappresentano la nuova mappa articolata in cui si è sciolta la vita culturale della regione; un patrimonio collettivo da vivere e da agire. Questi costituiscono ormai un modello operativo nuovo e stabiliscono un tessuto d'intervento complessivo e oppositivo alla industria culturale. Certo l'effettiva saldatura tra città e campagna, tra centralità e decentramento è ancora lontana ma, esiti e sbocchi positivi, già si sono enucleati, sia nelle attestazioni intellettuali che nelle nuove articolazioni di base. Ovviamente bisogna ancora superare diffidenze, mentalizzare un'autonoma posizione, centrare una propria fascia, sfuggire le facili strumentalizzazioni, dichiarare cadute le dipendenze dialettiche non significa ancora l'evidenziazione di un « corpus » definito; esistenza e coscienza separate devono diventare cioè esistenza e coscienza dichiarative del proprio livello di cultura, non rinunciando mai all'autenticità del rapporto nel e col territorio. Certamente è un lavoro complesso e difficile che, nella misura in cui si saprà vivere, diverrà un corpo unico e definito. Pertanto l'individuazione di un ruolo va relazionata alla comprensione e alla direzione di senso del proprio intervento: stabilire cioè, come si diceva nel '68, dove deve o non deve farsi cultura, perché e per chi e con chi farla, con quali mezzi e con quali sistemi. Interrogativi che hanno via via evidenziato l'impossibilità di produrre cultura libera in una struttura non disinteressata con la conseguente necessità d'inventare strutture alternative e di verificare momenti complessivi per ridurre le condizioni di frustrazione e di alienazione. Ciò - e altro - significò, ad esempio, la « Consulta permanente per la cultura e l'arte ». In che direzione allora valutare difficoltà di tenuta e incidenze reali? lo credo che i problemi suesposti, in centri come Napoli, si discussero nel collettivo più che consumarsi nel singolo. Cioè, nell'individuo, come nell'operatore estetico, i livelli di emarginazione storica si erano radicati fin nel profondo creando meandri oscuri di anfrattuosità. Ciò oggettivamente spuntava e ritardava una necessaria aggregazione, più che incoraggiarla. La distinzione tra coscienza oggettiva e i livelli differenziati di coscienza risultava fittizia e fittizia era anche la dichiarazione di ribaltamento dei parametri esistenti tra produzione e destinazione sociale del prodotto artistico. In questo contesto adeguare gli strumenti per la creazione e ricercare una diversa posizione d'ambientamento, significava operare nello e sullo specifico. L'insorgenza di tali proposizioni limitava le accresciute possibilità di aggregazione e non faceva porre un rapporro corretto con la classe operaia. Il non aver saputo (o il non aver voluto) distinguere momenti ed esigenze di lotta significò di fatto una contusione tra strategia e tattica. Si pencolava tra « vigilanza» e « autonomia » dalle istituzioni; si altalenava tra occupazione e richieste di spazio. Il civettuolo rapporto con le organizzazioni politiche fu un discorso da « corridoio », strumentalizzante, più che un leale contronto di necessità e bisogni. Ciò, in pratica, distanziò la « Consulta » dalle strutture intermedie che la classe operaia si era data. Su queste basi saltava la possibilità di una reale ed effettiva saldatura con le lotte sociali. La « reciproca presa di coscienza dei gravi problemi che investono le classi lavoratrici » risultò una formulazione e ristagnò nel limbo delle buone intenzioni. Non fu sufficiente quindi costituire momenti di intensa mobilità intellettuale, affrontare il nesso che lega il discorso critico-sociale a quello artistico, azzerare la tradizionale indicazione sociologica dell'intellettuale, affrontarne le funzioni e gli scopi legati ad un'ideologia che li considera come esseri distaccati dalla prassi sociale. Né si deve credere che a determinare il fallimento della operazione « Consulta » furono le assenze di chi, sul filo dell'ironia, finiva per ritrovare nell'idealismo crocio-gentiliano la sua massima ideologizzazione. Di contro le ragioni vanno ricercate nel recesso di endemici disagi e di risorgenti malesseri. Né, attualmente, l' annullamento competitivo, in estetica, di un gruppo di operatori, può qualificare un indirizzo politico: in quanto la riduzione segnica acquista una valenza dogmatica e l'azzeramento non declina un sistema creativo di maturazione dei partecipanti, né definisce un "processo di coinvolgimento attivo delle masse". In questa direzione un'approfondita indagine andrebbe tentata se non altro per rispondere al: che fare? Innanzitutto bisogna comprendere che il disagio e il malessere dell'intellettuale meridionale rappresenta una delle tante « lesioni» nel « tessuto produttivo del Mezzogiorno». Napoli con il più alto « tasso di disoccupazione» ne è un esempio. La condizione dell' intellettuale va ricondotta, quindi, entro quest'orbita e in essa può trovare la sua valenza: operare da una parte didatticamente nelle condizioni di massima emarginazione sociale per « concepire una vera e propria politica della partecipazione» in modo che « venga coinvolta la sfera della creatività» singola e collettiva e d'altra parte costituire un cemento unico con la classe operaia, sia sul piano rivendicativo che sul piano di crescita di potere. Solo entro quest'arco si può giustificare un impiego e un recupero realmente rivoluzionario dell'intellettuale, in quanto è interno/esterno alla molteplicità dei partecipanti. Esemplificazioni positive, in tal senso, possono essere dirette nel lavoro dei gruppi sopraindicati. Uscire dallo specifico, significherà allora anche uscire dall'involucro piccolo-borghese che l'intellettuale si porta cucito addosso. Percorrere altre vie significherebbe ancora una volta il fallimento. |
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